Convegno “Avrò cura di te”: quando il fine vita non è il fine cura

Ogni vita, breve o lunga che sia, è un dono e in quanto tale deve essere sempre accolta, custodita e rispettata. È dunque importante prendersi cura del paziente durante tutto l’arco della sua vita, dalla nascita alla morte naturale, anche se la vita dovesse durare solo poche ore. Alcuni bambini nascono con una diagnosi prenatale di incompatibilità con la vita e, anche se alla nascita si sa già che avranno poche ore o pochi giorni davanti, è possibile prendersi cura di loro rendendo la loro breve vita bella e piena di amore. È ciò che cercano di fare la dottoressa Elvira Parravicini, neonatologa e direttrice del Neonatal Comfort Care Program alla Columbia University di New York, e la dottoressa Chiara Locatelli, neonatologa all’ospedale Sant’Orsola di Bologna, che venerdì 22 ottobre hanno raccontato la loro esperienza durante il convegno “Avrò cura di te. Quando il fine vita non è il fine cura”, organizzato dall’Ufficio Pastorale della Salute presso il Centro Pastorale diocesano di Ancona.

Se molti medici indicano come unica possibilità quella di ricorrere all’aborto, entrambe invece praticano la comfort care con i neonati terminali, un’attività medica che dà dignità alla vita di bambini appena nati, permettendo che vengano curati e amati in tutti gli istanti della loro breve vita. Come ha infatti spiegato la dott. Elvira Parravicini in un video, «essere medici e infermieri significa usare tutte le nostre conoscenze, esperienze e professionalità, per servire la vita dei nostri pazienti dal primo all’ultimo giorno. Come avviene questo? Quando mi sono trovata di fronte a pazienti che non potevo salvare, ho capito che non era vero che non c’era più nulla da fare. Ogni vita è preziosissima ed è importante servirla sia se dura sette minuti che settanta anni. Così è nato il programma di comfort care che è impostato sul dare conforto a questi bimbi, in modo che la loro vita, anche cortissima, possa essere serena e piena di amore. Cerchiamo di garantire le condizioni di conforto al bimbo, lo lasciamo in braccio ai genitori, così che si senta amato e rimanga al caldo, gli diamo da mangiare o garantiamo un minimo di idratazione, così che non soffra fame o sete. E poi trattiamo il dolore. Certo, la domanda perché la loro vita è cosi breve, rimane, è veramente un mistero, però impariamo che tutti questi bimbi e le loro famiglie sono di fronte ad una promessa di felicità che si compie veramente per chi sa guardare».

Anche all’ospedale Sant’Orsola di Bologna esiste un percorso sul modello di “comfort care” della Columbia University di New York, dove la dottoressa Chiara Locatelli, neonatologa, ha passato qualche anno. «Una volta tornata in Italia – ha raccontato – anche all’ospedale Sant’Orsola abbiamo iniziato questo percorso ed è nato il progetto Giacomo, quando è nato un bambino di nome Giacomo che aveva avuto una diagnosi prenatale di anencefalia. Già prima della nascita, si sapeva che la sua vita sarebbe stata breve, ma il giorno che nacque, chiesi al primario del mio reparto, di potermi prendere cura di questo bambino. Così Giacomo è potuto stare con la sua mamma, i suoi fratelli e il papà in un reparto dove normalmente stanno i bambini sani. Nelle sue 19 ore di vita, ha colpito tutti i professionisti che si sono trovati a stare con lui, dalle ostetriche ai pediatri che, inizialmente, erano molto scettici sulla gestione, avevano paura. Giacomo stava bene, dal punto di vista della gestione del dolore, è stato alimentato come tutti gli altri neonati ed è rimasto con la sua famiglia. Da quel momento, le ostetriche hanno chiesto di ufficializzare questo percorso perché non fosse lasciato al caso. L’obiettivo di questo percorso è proprio il comfort, il fatto che i neonati possano stare bene, non provare dolore, essere curati e accompagnati, come è accompagnata anche la loro famiglia».

La dottoressa Chiara Locatelli ha accompagnato tante famiglie, tra cui Alessia, una ragazza di Ferrara che ieri ha raccontato la propria testimonianza. Mamma di quattro figli: due saliti al cielo prima di nascere, Samuele, un bimbo sano di due anni, e Francesco che è nato il 3 agosto 2021 ed è morto dopo 25 giorni per una malattia rara, incompatibile con la vita. «Mentre ero incinta di Pietro, il mio secondo figlio, e di Francesco, abbiamo avuto una diagnosi prenatale di incompatibilità con la vita – ha raccontato – entrambi sono stati etichettati come un feto incompatibile con la vita, uno spreco di tempo e di energie, una non vita. Per i medici che avevo incontrato l’unica possibilità era l’aborto, ma io e mio marito abbiamo deciso di dire sì alla vita. Disorientati e confusi abbiamo chiesto altri pareri e così siamo arrivati a Bologna e abbiamo conosciuto Chiara  e il progetto Giacomo. I medici del Sant’Orsola sono stati il segno della presenza di Dio, con il loro amore sconfinato e una gratuità fino ad allora a me sconosciuta. Non ci siamo sentiti soli, la loro tenerezza e costanza nell’accompagnarci credo siano stati un’anticipazione di ciò che conosceremo in paradiso. La morte di Francesco, seppur dolorosa, è stata una grazia e un dono, non solo per noi. In quelle difficili ore, un medico ha deciso di assisterci nella fatica di quel momento, con amore e rispetto, e ha dato dignità a quel corpo fragile. Dio si è servito di Francesco per arrivare al medico e, allo stesso tempo, si è servito del dottore per dirci che non siamo soli e che, anche nel dolore più grande, può esserci una dolce consolazione. Chiunque dovrebbe morire come è morto mio figlio. Medici, come quelli che abbiamo incontrato noi, possono fare la differenza. Con Francesco ho veramente capito cosa significa dare al mondo un figlio. Lo custodisci, lo partorisci, è veramente una parte di te, ma non è tuo. Io e mio marito abbiamo dato la possibilità al mondo di conoscere Francesco. Lo abbiamo fatto nascere carnalmente, per donarlo alle persone a cui era destinato perché toccasse e segnasse tanti cuori. È stato voluto e amato tantissimo da una moltitudine di persone, amato lui e amati noi che abbiamo detto sì alla vita».

All’incontro sono intervenuti anche Mons. Angelo Spina, Arcivescovo Metropolita di Ancona-Osimo, Simone Pizzi, direttore dell’Ufficio diocesano per la Pastorale della Salute, e don Massimo Angelelli, direttore dell’Ufficio Pastorale della Salute della Cei. Mons. Angelo Spina ha sottolineato che «prendersi cura non è  soltanto fare una medicazione, ma significa dire ad un altro “tu ci sei” e siccome esisti, io penso a te, ti stimo, ti voglio bene, ti vengo a trovare. Chiediamoci: in che tempo viviamo? Oggi c’è una corrente marcata che è quella dell’individualismo: si considerano solo i diritti e le libertà individuali e, davanti alla malattia e alla sofferenza di una persona, si parla di eutanasia. Così come davanti a una diagnosi prenatale incompatibile con la vita, si parla di aborto. Le esperienze ascoltate stasera ci mostrano invece come la scienza e la tecnologia possono servire la vita, che ha sempre un valore e non deve essere toccata. Oggi se tocchiamo il valore della vita e non ci prendiamo più cura di essa, cambiamo l’alfabeto dell’umano e non sappiamo più dove andiamo».

In collegamento anche don Massimo Angelelli, direttore dell’Ufficio Pastorale della Salute della Cei, ha sottolineato che  «c’è una tendenza mediatica ad immaginare che ci sia una forte spinta e richiesta verso i percorsi di eutanasia, ma in realtà non è così. La popolazione italiana vuole vivere nel miglior modo possibile  e, se si deve preparare al tratto finale della propria esistenza, vuole farlo con dignità, sollevata dal dolore e non da sola. Dobbiamo ricordare la legge 38 del 2010 che ha istituito le cure palliative e il diritto a morire sollevati dal dolore. Purtroppo è una delle meno applicate in Italia, ma le cure palliative sono fondamentali perché permettono di essere sollevati dal dolore e di essere accompagnati. Come cristiani, poi, non dobbiamo dimenticare che la fine della vita terrena è un punto di transizione. Non è la fine di nulla, perché ci conduce verso la vita eterna in cui godremo l’incontro con Dio». Simone Pizzi, direttore dell’Ufficio diocesano per la Pastorale della Salute, ha ricordato che «la Pastorale della salute accoglie l’appello degli uomini che chiedono cura e speranza, rivolgendo un forte invito alla società a riflettere e ricercare il modo più umano per esprimere attenzione e sollecitudine  verso le persone che si avvicinano alla fine della vita terrena e verso coloro che li accompagnano. Grazie, dunque, a tutti coloro che a vario titolo – assistenti spirituali, medici, infermieri, equipe assistenziali – operano per garantire qualità e dignità nel percorso di fine vita terrena. La loro azione testimonia cura, relazione e prossimità».

 

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