Chiarezza e luce sul fine vita, Samaritanus bonus

In un’epoca in cui l’apparire conta di più che il fare, l’avere più dell’essere, la tecnologia a scopo di lucro più dei diritti umani fondamentali, l’individualismo ego-digitale più della socialità del contatto e della carità umana, in un tempo così gravido di confusione, soprattutto sui temi della vita, c’è bisogno di chiarezza. Il 22 settembre scorso la Congregazione per la dottrina della Fede ha pubblicato la lettera Samaritanus bonus sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita. Un documento che si segnala per la chiarezza e la completezza nel riaffermare come «insegnamento definitivo», al popolo cattolico in tutte le sue articolazioni – legislatori, giudici, giuristi, medici, infermieri, farmacisti, docenti, catechisti, sacerdoti, genitori e semplici fedeli – l’illiceità dell’eutanasia e del suicidio assistito, sollecitando, nel contempo, tutti gli uomini di buona volontà a un’azione decisa verso l’accompagnamento competente e la cura di ogni vita umana che sperimenti la malattia, il dolore e la morte. Lo sfondo dal quale occorre partire per comprendere la lettera è la crisi dei legami sociali dovuti al diffondersi dell’individualismo, dell’utilitarismo e dell’efficientismo propri della nostra epoca.

Secondo la Congregazione della dottrina della Fede il contesto culturale odierno è fondato su tre fattori che impediscono all’uomo contemporaneo in genere, e anche al cattolico, di cogliere il valore intrinseco della vita umana: a) l’equivoco concetto di “morte degna”, che traduce un sostanziale utilitarismo, in base alla quale si attribuisce un valore (rectius, un prezzo) alla vita e alla sofferenza umana; b) l’erronea nozione di compassione, per cui si preferisce eliminare il sofferente piuttosto che lenire la sua sofferenza; c) l’individualismo crescente che inasprisce la solitudine di cui soffre l’uomo contemporaneo nelle atomizzate società occidentali, e in più tradisce un remoto, ben identificabile radicamento in due forme ereticali anticristiane: il neo-pelagianesimo – l’idea per cui l’uomo si salva da se stesso – e il neo-gnosticismo, che fa ritenere la salvezza raggiungibile tramite la liberazione della persona dai limiti fisici della propria corporeità. Nel documento si precisa cheLa debolezza ci ricorda la nostra dipendenza da Dio e invita a rispondere nel rispetto dovuto al prossimo. Da qui nasce la responsabilità morale, legata alla consapevolezza di ogni soggetto che si prende cura del malato (medico, infermiere, familiare, volontario, pastore) di trovarsi di fronte a un bene fondamentale e inalienabile – la persona umana – che impone di non poter scavalcare il limite in cui si dà il rispetto di sé e dell’altro, ossia l’accoglienza, la tutela e la promozione della vita umana fino al sopraggiungere naturale della morte” (§ I).

Poste queste premesse, la Congregazione della dottrina della Fede ribadisce l’insegnamento teologico e morale della Chiesa in tema di eutanasia e suicidio assistito. “La Chiesa ritiene di dover ribadire come insegnamento definitivo che l’eutanasia è un crimine contro la vita umana perché, con tale atto, l’uomo sceglie di causare direttamente la morte di un altro essere umano innocente” (§ V, 1); i cattolici devono aver ben presente che “qualsiasi cooperazione formale o materiale immediata ad un tale atto è un peccato grave contro la vita umana. Nessuna autorità può legittimamente imporlo né permetterlo. Si tratta, infatti, di una violazione della legge divina, di una offesa alla dignità della persona umana, di un crimine contro la vita, di un attentato contro l’umanità. Dunque, l’eutanasia è un atto omicida che nessun fine può legittimare e che non tollera alcuna forma di complicità o collaborazione, attiva o passiva. Coloro che approvano leggi sull’eutanasia e il suicidio assistito si rendono, pertanto, complici del grave peccato che altri eseguiranno. Costoro sono altresì colpevoli di scandalo perché tali leggi contribuiscono a deformare la coscienza, anche dei fedeli” (§ V, 1).

In tal senso la pratica eutanasica non tutela la dignità della persona sofferente, come teorizzano i suoi sostenitori, ma costituisce la forma più disumana di abbandono alla solitudine, alla depressione, alla disperazione del sofferente medesimo: “sono gravemente ingiuste, pertanto, le leggi che legalizzano l’eutanasia o quelle che giustificano il suicidio e l’aiuto allo stesso, per il falso diritto di scegliere una morte definita impropriamente degna soltanto perché scelta. Tali leggi colpiscono il fondamento dell’ordine giuridico: il diritto alla vita, che sostiene ogni altro diritto, compreso l’esercizio della libertà umana. L’esistenza di queste leggi ferisce profondamente i rapporti umani, la giustizia e minaccia la mutua fiducia tra gli uomini. Gli ordinamenti giuridici che hanno legittimato il suicidio assistito e l’eutanasia mostrano, inoltre, una evidente degenerazione di questo fenomeno sociale” § V, 1). Samaritanus bonus ci dice che la pratica eutanasica o di assistenza al suicidio stravolge e deturpa la relazione etica e umana tra il medico e il paziente, poiché lo statuto deontologico della professione medica implica che “ogni atto medico deve (…) sempre avere ad oggetto e nelle intenzioni di chi agisce l’accompagnamento della vita e mai il perseguimento della morte. Il medico, in ogni caso, non è mai un mero esecutore della volontà del paziente o del suo rappresentante legale, conservando egli il diritto e il dovere di sottrarsi a volontà discordi al bene morale visto dalla propria coscienza” (§ V, 2). L’eutanasia e il suicido assistito sono una sconfitta di chi le teorizza, di chi li decide e di chi li pratica.

Ribadito il divieto assoluto per il cattolico di praticare o assistere in modo diretto o indiretto, formale o sostanziale, alla pratica della morte assistita, il documento chiarisce che bisogna evitare l’accanimento terapeutico, pur senza che questa “desistenza” si trasformi in abbandono del paziente sofferente, poiché anche questo comporta una grave lesione della dignità umana. In questa direzione la Lettera puntualizza che trattamenti come idratazione e alimentazione, alla luce della ragione prima che della fede, non possono essere interrotti – se non nell’imminenza del punctum mortis – in quanto non sono trattamenti terapeutici: “alimentazione e idratazione non costituiscono una terapia medica in senso proprio, in quanto non contrastano le cause di un processo patologico in atto nel corpo del paziente, ma rappresentano una cura dovuta alla persona del paziente, un’attenzione clinica e umana primaria e ineludibile. L’obbligatorietà di questa cura del malato attraverso un’appropriata idratazione e nutrizione può esigere in taluni casi l’uso di una via di somministrazione artificiale, a condizione che essa non risulti dannosa per il malato o provochi sofferenze inaccettabili per il paziente” (§ V, 3).

Infine Samaritanus bonus evidenzia la necessità dell’obiezione di coscienza: “dinnanzi a leggi che legittimano – sotto qualsiasi forma di assistenza medica – l’eutanasia o il suicidio assistito, si deve sempre negare qualsiasi cooperazione formale o materiale immediata[…]. È necessario che gli Stati riconoscano l’obiezione di coscienza in campo medico e sanitario, nel rispetto dei principi della legge morale naturale, e specialmente laddove il servizio alla vita interpella quotidianamente la coscienza umana. Dove questa non fosse riconosciuta, si può arrivare alla situazione di dover disobbedire alla legge, per non aggiungere ingiustizia ad ingiustizia, condizionando la coscienza delle persone. Gli operatori sanitari non devono esitare a chiederla come diritto proprio e come contributo specifico al bene comune[…]. Il diritto all’obiezione di coscienza non deve farci dimenticare che i cristiani non rifiutano queste leggi in virtù di una convinzione religiosa privata, ma di un diritto fondamentale e inviolabile di ogni persona, essenziale al bene comune di tutta la società. Si tratta, infatti, di leggi contrarie al diritto naturale in quanto minano i fondamenti stessi della dignità umana e di una convivenza improntata a giustizia” (§ V, 9).

La lettera è un inno alla positività ontologica della vita umana, anche quando la malattia e il dolore potrebbero offuscarne apparentemente il valore, ma anche un severo monito alla coerenza nella difesa del debole, monito rivolto a politici e uomini di cultura cattolici e di buona volontà. La tentazione di una falsa compassione che spinge a eliminare la sofferenza mettendo fine alla vita del sofferente appartiene a una mentalità verso la quale la lettera Samaritanus bonus ci invita a non venire mai a patti, riconoscendo nella vita di ciascun essere umano un bene indisponibile. L’opposizione alla pratica eutanasica – diceva un laico repubblicano come Guglielmo Castagnetti – non si legittima soltanto alla luce della fede, ma anche della semplice e pura ragione, poiché “se l’opposizione del credente a questa legge si fonda sulla convinzione che la vita umana, quali che siano le forme e le connotazioni dolorose che può assumere, è dono divino che all’uomo non è lecito soffocare od interrompere, altrettanto motivata è l’opposizione del non credente che si fonda sulla convinzione che la vita sia tutelata dal diritto naturale, che nessun diritto positivo può violare o contraddire che essa appartiene comunque alla sfera dei beni “indisponibili”, che né i singoli né la collettività possono aggredire” (da Fede e diritto, Conferenza tenuta dal dott. Rosario Livatino il 30 aprile 1986 a Canicattì, nel salone delle suore vocazioniste).

+Angelo, Arcivescovo